il tradimento dei freni della bici

Era l'estate del 1982, avevo 12 anni. Ogni anno, al termine del periodo scolastico, io e mio fratello Luca venivamo "parcheggiati" per un mesetto buono presso la casa di nostra nonna materna. I nostri genitori, entrambi impegnati con il loro lavoro, per evitare di lasciarci da soli a casa a Milano fino all'inizio delle meritate ferie, decidevano di farci vivere per quel breve periodo coi ritmi della campagna. Io e mio fratello, ovviamente avremmo preferito rimanere in città dove c'erano i nostri amici, ma eravamo costretti nostro malgrado a trasferirci in quel piccolo borgo contadino sulla riva del fiume Adda. Il piccolo paesino era Bisnate, frazione di Zelo Buon Persico, provincia di Lodi. In sostanza non avevano di che lamentarci. A parte le levatacce obbligate dall'anziana nonna, il fatto di dover andare a messa e quello di dover aiutare la nonna nelle sue faccende perché anziana, appunto, la vita da adolescente nel borgo aveva anche i suoi non trascurabili vantaggi. Considerando che ci si doveva svegliare tutte le mattine alle 7 e mezza e andare a letto alle 22, sottraendo le due ore dedicate a pranzo e cena, inclusi lavaggio dei piatti e faccende di casa, io e Luca avevamo a disposizione circa 13 ore di caldo e di sole per spassarcela tra avventure e scorribande. C'era il portico di casa per stare al fresco a chiacchierare con gli altri ragazzini del paese, c'era il parchetto della chiesa per andare sull'altalena, c'era il fiume per fare il bagno quando il caldo diventava insopportabile e c'erano le biciclette. Le biciclette, il nostro più importante mezzo di trasporto. Ne avevamo tante, alcune delle quali non erano nemmeno nostre. Ce le lasciavano giù in campagna i nostri cugini e amici, le lasciavano lì in previsione di usarle quando sarebbero venuti a trovarci, poi loro non passavano mai e le biciclette diventavano automaticamente nostre. Ne avevamo di diversi tipi, la Saltafoss, che aveva gli ammortizzatori come quelli delle moto da cross e aveva pure il cambio con la leva in mezzo, sulla canna, che sembrava quello di una formula uno, la bici da corsa di nostro cugino Sergio, una Atala, che era bellissima però troppo alta per noi, la BMX del nostro amico Galtiero e il biciclettone di mio zio che era diventato il laboratorio dei miei esperimenti meccanici. In paese, quando ci si annoiava, si organizzavano gare di accelerazione, come quelle dei dragster americani che vedevano in TV. C'era un rettilineo di circa 300 metri, Via Orti. Si partiva dallo sterrato davanti a casa della nonna, per poi percorrere un tratto di strada asfaltata che si concludeva con il muro di cinta di Villa Taccani, la casa padronale di Bisnate. Il traguardo era l'incrocio con via Adda, alla fine di via Orti (Bisnate ha solo due vie, Via Adda e via Orti, praticamente in cardo e il decumano) e il tratto di strada dedicato alla decelerazione dei bolidi era veramente ridotto. Io, mio fratello, mio cugino Ivan (nostro quasi coetaneo), il nostro amico Giampaolo, figlio del gestore del Ristorante Cacciatori e altri due ragazzini eravamo gli organizzatori nonché protagonisti principali della "Bisnate's 1982 annual drag race". Il pubblico era composto da passanti ignari, signore che curavano il proprio orto e clienti del vicino ristorante San Lisander, secondo ristorante del paese. Alle 10:30 circa era tutto pronto, piloti e mezzi erano schierati lungo la linea di partenza tracciata nel terreno sassoso dello sterrato. Ogni pilota inforcava un veicolo di caratteristiche diverse rispetto a quello degli altri, era una griglia di partenza molto eterogenea e per alcuni concorrenti la scelta del veicolo stesso, oltre ad un grave errore di valutazione, in alcuni casi era stata obbligata dal fatto che non c'era molta scelta, se non avevi una tua bici, ti beccavi quello che passava il convento. I fortunati che possedevano una propria "scuderia", come me e mio fratello, in modo del tutto scorretto la sera prima si erano dedicati alla cura del proprio mezzo tirando tardi e cercando di migliorarne il più possibile le prestazioni. Per questo motivo quella sera decisi di tirare a lucido il biciclettone Learco Guerra con i freni a bacchetta e di lubrificarne per bene ogni parte con il grasso per catena e il prodigioso olio spray di mio papà, che vidi bene di spruzzare ovunque, anche dove non andava spruzzato. Il via, alla maniera di "Grease", con il fazzoletto, lo avrebbe dato Mariangela, la graziosa ragazzina dai lunghi capelli neri nativa di Bisnate, in sostanza la "miss" del paese. Il sole quasi allo zenith ci faceva bollire il cervello, Ivan, stanco di star fermo, azzardò una falsa partenza e venne prontamente redarguito in dialetto da un vecchio che osservava la scena e che gli rifilò una bastonata che per fortuna non colpì la sua schiena ma la ruota posteriore della sua BMX, anzi, la BMX di Guartiero. Mariangela alzò il fazzoletto al cielo e nel farlo le si alzò un po' anche la camicetta al di sopra dell'ombelico, il che ci distrasse un pochino, ma al cadere del pezzo di stoffa bianca si sollevò un gran polverone dal quale il primo ad uscire in direzione del traguardo fu il sottoscritto. Avevo la vittoria in pugno, la partenza era stata perfetta, le ruote più grandi e il colpo di pedale al momento giusto mi avevano permesso di passare al comando senza dover entrare in bagarre con gli altri concorrenti. Inoltre la messa a punto della sera prima aveva reso velocissima e scorrevole la mia cavalcatura. Forse anche fin troppo scorrevole! Avevo già preso il largo mentre Giampaolo sulla sua Cinelli mi tallonava a qualche metro. Sentii il sobbalzo quando iniziai a percorrere il tratto asfaltato e da lì in poi sapevo che avrei potuto darci più di pedale, grazie alla migliore aderenza col terreno. E lo feci. Ero più che certo della superiorità del mio mezzo, anche alla luce del fatto che ero l'unico ad averlo "elaborato" e ne andavo anche molto fiero. Ai due estremi del traguardo stavano i due Commissari di Gara: la sorellina di 8 anni di Giampaolo con il mio cane Jack, che per evitare ci corresse dietro per azzannarci i polpacci era tenuto al guinzaglio dalla bambina. Nonostante l'impegno di Gian che sentivo ansimare e imprecare alle mie spalle, oltrepassai il traguardo. "Vittoria!" pensai. L'ingegno e la furbizia avevano vinto. Poi pero qualcosa andò storto. E la colpa fu mia e del prodigioso olio spray di papà, che nel mio impeto di elaborazione del mezzo meccanico avevo spruzzato anche sulle spazzole dei freni a bacchetta della bici. Non l'avevo spruzzato direttamente nel punto dove le spazzole toccano la ruota, ma così vicino da fare in modo che durante la notte colasse lentamente nel punto dove non sarebbe mai dovuto colare. Ero ancora in piena velocità e quando fui certo di aver stracciato tutti i miei avversari valutai quanto spazio mi separava dal muro della villa. Erano pochi metri, ma i freni della Learco Guerra erano leggendari e mi avevano salvato la ghirba più di una volta durante le discese al fiume, così diedi una bella strizzata alle manette... senza ottenere alcun risultato. Fu una sensazione orribile, che non augurerei a nessuno: il mezzo meccanico che ti tradisce al momento del bisogno. Non potevo più cambiare direzione e andai a schiantarmi fragorosamente contro il poderoso muro di cinta. La ruota anteriore si piantò, quella posteriore si sollevò da terra e le mie due mani che cingevano le manopole del manubrio andarono entrambe letteralmente a tirare un pugno contro il suddetto muro, ad una velocità compresa tra i 25 e il 30 km orari. A distanza di tanti anni guardo le nocche delle mie mani e vedo le cicatrici lasciate da quello schianto. Si vedono ancora e mi ricordano quella vittoria che si trasformò in una piccola personale tragedia. Fu il più memorabile dei tanti piccoli episodi che mi fecero capire che se voglio vincere, non devo assolutamente barare. 

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